Tratto da "Nell'acquario", Youcanprint, seconda edizione, capitolo 8
Notte
solitaria, con Milano che pare una torrida
città
del Messico, umido al novanta per cento, trenta
gradi,
ed è soltanto maggio. Solo, Greta a titillarsi
l’ugola
col coro della “Cattolica”. Vago per la città fra
i
flash dei fari delle macchine che accarezzano veloci
la
mia barba abrasiva di tre giorni.
Cammino
in zona Castello, ne seguo il perimetro,
panchine
affollate di coppiette infuocate dalla
calura,
panchine di marmo grezzo che rinfrescano
i
loro sederi, mentre si baciano in infinite apnee,
incuranti
dell’assordante traffico che nell’estasi dei
sensi
è un ronzio di zanzare.
Attraverso
il parco senza più cancellata, senza più
quelle
sbarre da zoo che c’erano un tempo, non tanto
tempo
fa...
Un
sottofondo di tamburi accompagna i miei piedi
che
masticano la breccia dei viottoli sterrati che
si
irradiano fra le ombre degli alberi sotto la luna.
Luccichio
di spinelli e odore acre di marijuana e
gruppi
di stanchi giovani della notte seduti su lignee
panchine
consumate dal tempo... E tremuli bagliori
di
accendini...
Taglio
il parco nel mezzo, passando su un
ponticello
e specchiando la mia ombra nello stagno.
Oltrepasso
un prato coi resti della sua quotidiana
Woodstock,
bottiglie di birra, lattine, giornali, pezzi
di
cartone, una distesa di consumi che assiste inerte
all’esibizione
di maratoneti delle percussioni: ragazzi
che
giocano a fare i selvaggi sulle tribunette del
parco,
in compagnia di ragazze spleen che fumano
boccate
di pace, al termine dell’orrida settimana di
lavoro.
Dal
parco andando verso il museo della triennale,
camminata
pesante, muscoli stressati, mente
intossicata...
cammino per rilassarmi... Osservo dei
venditori,
rossi in viso, congestionati dal caldo delle
piastre
incandescenti che scaldano panini di gastrite
per
i signori “nonsochefare” della notte...
Di
fronte a me un altro parco affollato di strane
presenze:
ombre furtive di uomini si confondono
fra
le sagome degli alberi, lucciole di sigarette
accese
passeggiano nella via di Sodoma al centro
di
questi bui giardini... Quasi dimenticavo che è la
zona
gay di Milano... Quattro giovani, seduti vicino
al
chiostro attiguo ai giardini, urlano frasi al mio
indirizzo
chiamandomi cula e chiedendomi se sono
libera.
Voci da checche della notte, le distinguo nel
frastuono
del traffico incessante del sabato sera, di
quelli
che si devono divertire ad ogni costo...
Mi
allontano incurante e, forse, un po’ divertito...
Gay,
intraprendenti solo nei loro ghetti, vivono la
felicità
in un momento di penombra... con le facce
nascoste
dai cespugli.
Continuo
a camminare, con la mia camicia di
jeans,
i miei jeans, il cappello corto militare e il piglio
marziale,
strano solitario osservatore notturno, che
lascia
scorrere i suoi pensieri, come se sollecitare
le
piante dei piedi attivasse i miei centri nervosi,
come
se per pensare avessi estremo bisogno di
camminare.
Da
via Dante, squassata dai lavori, mi dirigo verso
il
Duomo, passando per un affollato marciapiede:
tavolini
pieni di gente, famigliole medioborghesi,
con
mamme annoiate che richiamano i bambini
che
paiono impazziti come i personaggi dei loro
videogiochini
del momento; signore ingioiellate
chiacchierano
sedute davanti ai loro Martini con
ghiaccio
o a qualche altra bevanda del momento, che
io
però non riesco a distinguere sui tavolini bui...
è
la città della moda, questa. Si fa solo ciò che è
di
moda, qui. E ciò che è di moda lo stabiliscono
i
ricchi. Piazza Duomo mi appare come sempre, in
queste
serate, questi sabato sera nei quali diventa
il
palcoscenico del mondo. Infatti le mille piazze
dei
paesi del mondo miserabile, come un tragico
incanto,
riappaiono qui. Peruviani, seduti sui
marciapiedi,
consumano le loro pietanze in piatti
di
carta colmi di montagnette di riso e fagioli; file
di
bottiglie vuote di birra se ne stanno parcheggiate
come
cupi birilli sotto il colonnato, fra occhi stanchi,
risate
ubriache e risse sedate a stento; un viado alto
due
metri di Cuzco chiede notizie della sua famiglia
campesina,
lassù, sulle Ande, vicino alle nuvole del
paradiso,
fra le nebbie che non si diradano su un
mondo
che sta morendo.
Gli
Albanesi, coi loro sudori pestilenziali e le risate
da
satiri ignoranti, se ne stanno appollaiati come
tante
scimmie non ammaestrate sotto il cavallo di
marmo
di Vittorio Emanuele, disturbato appena
da
spruzzi d’acqua che provengono da una fontana
artificiale,
con le loro tipiche espressioni illanguidite
e
i giubbotti di pelle sotto i quali sudano, ma che
si
tengono sempre addosso, in qualunque stagione,
come
se fossero di pelle di orsacchiotti mai avuti;
gli
Albanesi con le loro scarpe ginniche fosforescenti
Nike...
Scene
di sempre... pochi stanchi Italiani in giro,
escono
dai cinema del centro, troppo impegnati in
disquisizioni
sulla miseria per notarla davanti ai loro
occhi,
anche se è una miseria firmata.
Prendo
l’autobus, il cinquanta, e siedo insieme
a
tutta questa gente che si osserva, si scruta,
lasciando
morire la curiosità nello scantinato del
pudore
o forse della paura...
Salgo
per le scale del vecchio convento, scale grigie
di
pietra con ringhiera di ferro battuto, la mia ombra
imprigionata
da ombre di sbarre... Sono a casa di
Greta.
Insopportabile
insonnia, acrobazie nel letto e triste
ricorso
al televisore, senza voglia di leggere libri
preconfezionati
e televisivi che non mi emozionano...
Nervoso,
alla ricerca di qualcosa di dignitoso,
trovando
solo musica su MTV e parole inglesi che
non
capisco e che per questo mi affascinano...
Ancora
insonnia... mi sento un annoiato borghese
senza
avere i soldi di un borghese, uno stanco
annoiato
snob borghese in questa trappola di città
nella
quale mi sforzo ancora di cercare scampoli
di
poesia, guardando la ruggine di vecchi ponti
che
attraversano i navigli come scheletri di vecchi
tirannosauri
paralizzati, che resistono al tempo.