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mercoledì 28 gennaio 2015

Milano come non l'avete mai vista,Duomo, Castello,Parco Sempione, Arco della Pace, domenica 25/1/2015

Tratto da "Nell'acquario", Youcanprint, seconda edizione, capitolo 8



Notte solitaria, con Milano che pare una torrida
città del Messico, umido al novanta per cento, trenta
gradi, ed è soltanto maggio. Solo, Greta a titillarsi
l’ugola col coro della “Cattolica”. Vago per la città fra
i flash dei fari delle macchine che accarezzano veloci
la mia barba abrasiva di tre giorni.
Cammino in zona Castello, ne seguo il perimetro,
panchine affollate di coppiette infuocate dalla
calura, panchine di marmo grezzo che rinfrescano
i loro sederi, mentre si baciano in infinite apnee,
incuranti dell’assordante traffico che nell’estasi dei
sensi è un ronzio di zanzare.
Attraverso il parco senza più cancellata, senza più
quelle sbarre da zoo che c’erano un tempo, non tanto
tempo fa...
Un sottofondo di tamburi accompagna i miei piedi
che masticano la breccia dei viottoli sterrati che
si irradiano fra le ombre degli alberi sotto la luna.
Luccichio di spinelli e odore acre di marijuana e
gruppi di stanchi giovani della notte seduti su lignee
panchine consumate dal tempo... E tremuli bagliori
di accendini...
Taglio il parco nel mezzo, passando su un
ponticello e specchiando la mia ombra nello stagno.
Oltrepasso un prato coi resti della sua quotidiana
Woodstock, bottiglie di birra, lattine, giornali, pezzi
di cartone, una distesa di consumi che assiste inerte
all’esibizione di maratoneti delle percussioni: ragazzi
che giocano a fare i selvaggi sulle tribunette del
parco, in compagnia di ragazze spleen che fumano
boccate di pace, al termine dell’orrida settimana di
lavoro.
Dal parco andando verso il museo della triennale,
camminata pesante, muscoli stressati, mente
intossicata... cammino per rilassarmi... Osservo dei
venditori, rossi in viso, congestionati dal caldo delle
piastre incandescenti che scaldano panini di gastrite
per i signori “nonsochefare” della notte...
Di fronte a me un altro parco affollato di strane
presenze: ombre furtive di uomini si confondono
fra le sagome degli alberi, lucciole di sigarette
accese passeggiano nella via di Sodoma al centro
di questi bui giardini... Quasi dimenticavo che è la
zona gay di Milano... Quattro giovani, seduti vicino
al chiostro attiguo ai giardini, urlano frasi al mio
indirizzo chiamandomi cula e chiedendomi se sono
libera. Voci da checche della notte, le distinguo nel
frastuono del traffico incessante del sabato sera, di
quelli che si devono divertire ad ogni costo...
Mi allontano incurante e, forse, un po’ divertito...
Gay, intraprendenti solo nei loro ghetti, vivono la
felicità in un momento di penombra... con le facce
nascoste dai cespugli.
Continuo a camminare, con la mia camicia di
jeans, i miei jeans, il cappello corto militare e il piglio
marziale, strano solitario osservatore notturno, che
lascia scorrere i suoi pensieri, come se sollecitare
le piante dei piedi attivasse i miei centri nervosi,
come se per pensare avessi estremo bisogno di
camminare.
Da via Dante, squassata dai lavori, mi dirigo verso
il Duomo, passando per un affollato marciapiede:
tavolini pieni di gente, famigliole medioborghesi,
con mamme annoiate che richiamano i bambini
che paiono impazziti come i personaggi dei loro
videogiochini del momento; signore ingioiellate
chiacchierano sedute davanti ai loro Martini con
ghiaccio o a qualche altra bevanda del momento, che
io però non riesco a distinguere sui tavolini bui...
è la città della moda, questa. Si fa solo ciò che è
di moda, qui. E ciò che è di moda lo stabiliscono
i ricchi. Piazza Duomo mi appare come sempre, in
queste serate, questi sabato sera nei quali diventa
il palcoscenico del mondo. Infatti le mille piazze
dei paesi del mondo miserabile, come un tragico
incanto, riappaiono qui. Peruviani, seduti sui
marciapiedi, consumano le loro pietanze in piatti
di carta colmi di montagnette di riso e fagioli; file
di bottiglie vuote di birra se ne stanno parcheggiate
come cupi birilli sotto il colonnato, fra occhi stanchi,
risate ubriache e risse sedate a stento; un viado alto
due metri di Cuzco chiede notizie della sua famiglia
campesina, lassù, sulle Ande, vicino alle nuvole del
paradiso, fra le nebbie che non si diradano su un
mondo che sta morendo.
Gli Albanesi, coi loro sudori pestilenziali e le risate
da satiri ignoranti, se ne stanno appollaiati come
tante scimmie non ammaestrate sotto il cavallo di
marmo di Vittorio Emanuele, disturbato appena
da spruzzi d’acqua che provengono da una fontana
artificiale, con le loro tipiche espressioni illanguidite
e i giubbotti di pelle sotto i quali sudano, ma che
si tengono sempre addosso, in qualunque stagione,
come se fossero di pelle di orsacchiotti mai avuti;
gli Albanesi con le loro scarpe ginniche fosforescenti
Nike...
Scene di sempre... pochi stanchi Italiani in giro,
escono dai cinema del centro, troppo impegnati in
disquisizioni sulla miseria per notarla davanti ai loro
occhi, anche se è una miseria firmata.
Prendo l’autobus, il cinquanta, e siedo insieme
a tutta questa gente che si osserva, si scruta,
lasciando morire la curiosità nello scantinato del
pudore o forse della paura...
Salgo per le scale del vecchio convento, scale grigie
di pietra con ringhiera di ferro battuto, la mia ombra
imprigionata da ombre di sbarre... Sono a casa di
Greta.
Insopportabile insonnia, acrobazie nel letto e triste
ricorso al televisore, senza voglia di leggere libri
preconfezionati e televisivi che non mi emozionano...
Nervoso, alla ricerca di qualcosa di dignitoso,
trovando solo musica su MTV e parole inglesi che
non capisco e che per questo mi affascinano...
Ancora insonnia... mi sento un annoiato borghese
senza avere i soldi di un borghese, uno stanco
annoiato snob borghese in questa trappola di città
nella quale mi sforzo ancora di cercare scampoli
di poesia, guardando la ruggine di vecchi ponti
che attraversano i navigli come scheletri di vecchi
tirannosauri paralizzati, che resistono al tempo.